La somatizzazione ansia è un problema comune in tantissime persone. Noi tutti siamo il frutto di un inscindibile legame, collaborazione e interdipendenza tra corpo e mente; insieme formano un unico complesso integrato che viene influenzato da fattori biologici, psicologici, sociali.

Somatizzazione ansia

Le somatizzazioni ansia, o più correttamente i disturbi somatoformi, rappresentano una problematica seria per un gran numero di persone, ma non sempre è facile individuarle e definirle con esattezza. Si tratta di disturbi legati ad una sofferenza psichica, che si manifesta attraverso la comparsa di sintomi fisici a carico di un organo o di un apparato.

La somatizzazione, quindi, è un particolare processo psico-fisico che porta una persona a manifestare in una parte del proprio corpo organicamente sana un dolore, come risposta inconscia ad un’alterazione del proprio equilibrio psicologico, coinvolgendo il sistema endocrino ed il sistema immunitario.

E’ come se il corpo esprimesse il disagio psichico, disagio che non trova né una rappresentazione né un canale per tradursi in pensiero e/o parole. Questi meccanismi sono determinati molto spesso dalla presenza di forti livelli di stress, da ansia patologica, da disagi inespressi e repressi, da depressione o da paure costanti.

Somatizzazione ansia: le cause

Un Disturbo da Somatizzazione può dipendere da diverse cause, che non sono di tipo organico in quanto le somatizzazioni sono espressione di un disagio psicologico e sociale; statisticamente i principali responsabili di questi dolori fisicamente inspiegabili sono disturbi psichici e dell’umore quindi ansia, depressione, ipocondria o disturbi bipolari.

Quando si vive uno stato d’ansia protratto nel tempo, possono insorgere disturbi psicosomatici di varia natura, anche senza che si riesca a prendere reale coscienza della sua presenza: talvolta i sintomi fisici sono i primi segnali attraverso i quali ci si rende conto di soffrire di un disturbo d’ansia, che poco alla volta si è fatto sempre più strada e radicalizzato nella propria mente e nella propria vita.

Alcuni studi hanno inoltre dimostrato come le persone colpite da disturbo post traumatico da stress siano più propense a sviluppare disturbi psicosomatici: in tal caso, i sintomi fisici possono comparire anche a grande distanza temporale dall’evento scatenante, rendendo non sempre semplice la sua individuazione

Le conseguenze della somatizzazione ansia possono diventare molto invasive e destabilizzanti e incidere pesantemente sul normale funzionamento sociale e lavorativo. Il paziente, infatti,  può avere  la necessità di consultare spesso i medici per tentare di indagare sull’origine di tali disturbi e, sovente, può iniziare un pellegrinaggio da un medico all’altro nel tentativo di trovare una soluzione per risolvere e/o contenere tali disturbi.

Spesso chi somatizza ansia è profondamente convinto di avere una malattia organica affrontabile solo attraverso esami clinici e farmaci, ignorando o non volendo riconoscere o accettare invece il fatto che la sua natura, e dunque la sua risoluzione, sono di tipo psicologico. Nelle somatizzazioni, infatti, il paziente, in modo del tutto inconsapevole preferisce  spostare sul corpo o su una parte di esso ciò che appare molto difficile affrontare direttamente perché impregnato di forte emotività. Tale meccanismo diventa, quindi, una modalità difensiva che permette di evitare scomodi e dolorosi vissuti emotivi.

E’ importante che vengano riconosciute le basi psicogene del quadro clinico, al fine di evitare interventi medici inutili o eccessive prescrizioni di farmaci che, a loro volta, potrebbero causare effetti indesiderati o complicanze.

ansia cuore

I sintomi della somatizzazione dell’ansia

Somatizzare l’ansia significa avere dei sintomi fisici precisi che spesso spaventano generando circoli viziosi, ovvero la cosiddetta “paura della paura”. Tuttavia essi dipendono dal fatto che, ipotizzando di trovarsi in una situazione di reale pericolo, l’organismo in ansia ha bisogno della massima energia muscolare a disposizione, per poter scappare o attaccare in modo più efficace possibile, scongiurando il pericolo e garantendosi la sopravvivenza. L’ansia, quindi, non è solo un limite o un disturbo, ma costituisce una importante risorsa. E’ infatti una condizione fisiologica efficace in molti momenti della vita per proteggerci dai rischi, mantenere lo stato di allerta e migliorare le prestazioni (ad es., sotto esame).

Quando l’attivazione del sistema di ansia è eccessiva, ingiustificata o sproporzionata rispetto alle situazioni, possono intervenire vari sintomi fisici che diventano cronici, rivelandosi vere e proprie somatizzazioni:

  • Nausea
  • Dolore allo stomaco
  • Problemi digestivi
  • Sensazione di avere qualcosa incastrato in gola
  • Mal di testa
  • Tensioni e dolori muscolari
  • Dolore al petto
  • Problemi a dormire
  • Difficoltà respiratorie
  • Palpitazioni
  • Sudorazione
  • Tremori
  • Vuoti di memoria
  • Vertigini

I sintomi da somatizzazione che vengono riportati più frequentemente sono dunque svariati, e possono manifestarsi all’interno di un quadro clinico anche molto eterogeneo.

Ad esempio, l’ansia può essere fonte indiretta di nausee e dolori allo stomaco anche per un motivo molto più materiale: quando un soggetto soffre di ansia può inconsapevolmente sentirsi spinto a ingurgitare velocemente e in maniera disordinata il cibo. Questo comportamento involontario può compromettere la corretta digestione e può causare senso di pesantezza, gonfiore addominale, dolori e bruciore di stomaco.

Dolore al petto da ansia

La somatizzazione dell’ansia alla gola è piuttosto comune nei soggetti ansiosi. La causa di questo tipo di disturbo somatoforme può essere interpretata come una difficoltà a esternare i propri pensieri. Solitamente si manifesta come quello che viene comunemente chiamato nodo alla gola, con conati di vomito o una sensazione di costrizione.

Il nodo alla gola può essere associato alla sensazione di avere un corpo estraneo incastrato appunto in gola, un qualcosa che impedisce di deglutire e che fa insorgere il timore di soffocare. La ricorrenza di episodi di questo tipo può generare paure croniche come quella di soffocare mangiando o bevendo e può provocare la continua necessità di deglutire. Estinto l’attacco d’ansia, ritornerà alla normalità anche la gola.

Uno dei più frequenti effetti negativi che l’ansia esercita a livello organico sul corpo umano coinvolge la testa. Spesso l’ansia si manifesta come una cefalea tensiva o sotto forma di emicrania pulsante. Non è raro che il dolore si espanda poi verso orecchie, bocca, occhi e collo.

Solitamente le cause della somatizzazione dell’ansia con dolore alla testa vanno cercate in uno stile di vita della persona sofferente estremamente votato alla cerebralità e alla tendenza a razionalizzare qualunque aspetto della propria esistenza, il continuo rimuginare su quello che è successo o quello che potrebbe succedere.

Solitamente si tratta di persone che esercitano un eccessivo controllo su se stesse e sugli altri, che tendono ad organizzare perfettamente ogni aspetto della propria vita e di quella altrui anche in assenza di una specifica richiesta.

La somatizzazione dell’ansia agli occhi può essere conseguenza degli effetti che questa ha sulla testa della persona. Le cefalee e le emicranie possono mutare in dolori psicosomatici alle palpebre e a temporanei cali della vista. Oltre a ciò è possibile anche che siano gli occhi direttamente, e non di riflesso, a somatizzare l’ansia.

Un’altra delle forme più comuni di somatizzazione dell’ansia è attraverso dolori muscolari diffusi in tutto il corpo.

La mente umana non percepisce come pericolo solo situazioni oggettive provenienti dall’esterno ma anche quelle circostanze psicologiche che, più che il corpo, mettono a repentaglio la stabilità della psiche: in questo caso i muscoli rimangono contratti a lungo e vanno in asfissia, e questa mancanza di ossigeno contribuisce alla formazione di tossine che danno poi origine al dolore muscolare.

Oltre alle gambe, le altre zone del corpo che risentono maggiormente del dolore in conseguenza all’ansia sono la schiena, il rachide cervicale e la zona lombare. Alcune cause che scatenano la tensione muscolare possono essere problemi lavorativi o addirittura la perdita del lavoro, la preparazione di un esame per uno studente, un divorzio o una separazione coniugale o ancora un lutto.

Un altro disturbo somatoforme che spesso viene correlato all’ansia è l’insonnia. Il corpo è iper-attivato dai sintomi legati al disturbo d’ansia e rende impossibile il sonno. Il tutto potrebbe essere incentivato dalla paura di lasciare il controllo per una scarsa fiducia nelle proprie potenzialità. La notte da sempre porta smarrimento e amplifica le preoccupazioni, tutto sembra più grande.

Ma è l’ansia a causare l’alterazione del sonno, oppure è il contrario? Spesso si pensa che questo fenomeno sia a senso unico, ma la verità è che possono verificarsi entrambi gli scenari: l’ansia prima di dormire può essere causa dell’insonnia, ma può avvenire anche l’opposto.

La mancanza di sonno prolungata, infatti, aumenta la propensione alla depressione e all’ansia. Immaginando una situazione di insonnia causata, ad esempio, da un disturbo fisico, è possibile che il protrarsi del disturbo del sonno causi anche una maggiore predisposizione a uno stato di ansia notturna, che a sua volta andrà a nutrire l’insonnia durante le successive notti. Per questo, per sconfiggere ansia e insonnia è fondamentale riconoscere le cause di entrambe e disinnescare il circolo vizioso per il quale una diviene nutrimento dell’altra.

Mentre altri sintomi tendono ad attirare meno l’attenzione, c’è un sintomo che provoca un atroce timore, e di solito sono le fitte al petto, forse perché questo dolore può essere quanto di più vicino ai sintomi di un attacco cardiaco.

Dinnanzi alla percezione delle fitte al petto dovute all’ansia, la risposta logica dell’individuo è la manifestazione di maggiori livelli di ansia. In questo modo, si    crea un circolo vizioso che si autoalimenta e che peggiora la situazione in alcuni

momenti. Sebbene questa somatizzazione sia piuttosto frequente e non sia indice di un imminente pericolo, a volte può essere sintomo di altri elementi ansiogeni nella vita della persona.

In generale, le fitte al petto dovute all’ansia non si manifestano di punto in bianco, a causa di un passeggero o transitorio episodio di ansia; al contrario, di solito insorgono come conseguenza a una intensa e prolungata presenza di ansia nell’individuo, una presenza che potrebbe generare conseguenze negative per la salute e il benessere dello stesso.

In presenza di fitte al petto, la cosa più giusta da fare è mantenere la calma e aspettare che un professionista confermi l’origine del problema, soprattutto se si ha una certa tendenza a provare ansia.

insonnia uomo

Ansia, stress o panico possono causare inoltre un aumento del ritmo respiratorio anche in una condizione di riposo. In una situazione di normalità, in cui non si è sottoposti a particolari sforzi fisici o stress emotivi, i cicli respiratori sono compresi tra i 10 e i 12 al minuto e permettono di accumulare circa 4 – 6 litri d’aria nei polmoni. Quando l’ansia ha il sopravvento invece il numero dei cicli respiratori supera i 15 al minuto e la quantità di litri d’aria nei polmoni aumenta.

L’aumento del ritmo respiratorio può arrivare fino all’iperventilazione, e può capitare che con l’aumento della respirazione tipico dell’iperventilazione compaiano altri sintomi fisici; oltre alle fitte al torace, si possono avvertire formicolio agli arti, giramento di testa, nausea, senso di svenimento e di vertigine, tremori e vuoti di memoria. E c’è di più. Spesso sono proprio questi sintomi ad aumentare l’ansia e la sensazione di panico.

Il fiato corto tipico dell’iperventilazione coincide con una respirazione toracica, che sfrutta cioè soltanto la parte alta dei polmoni. In questa situazione, la quantità di anidride carbonica nel sangue si riduce notevolmente con conseguenze negative sulla circolazione sanguigna e sull’ossigenazione del cervello che, quando è poco ossigenato, subisce la riduzione della la capacità di concentrarsi e di memorizzare.

Parallelamente, aumentano i livelli di alcuni ormoni specifici che hanno un effetto negativo sullo stato emotivo della persona. Durante l’iperventilazione si crea un vero e proprio circolo vizioso: l’ansia e il panico aumentano la frequenza del respiro e questa, a sua volta, alimentare ulteriormente ansia e panico.

Allora, che fare?

Esistono delle semplici tecniche che permettono di risintonizzare il respiro e placare l’ansia; imparare a concentrarsi sul respiro, ascoltandolo e rallentandolo, può avere un effetto importante nel placare il vissuto ansioso e i suoi sintomi fisiologici.

Sintomi fisici di questo tipo non devono essere sottovalutati.

Capita spesso di incorrere in casi di pazienti che presentano sintomi così intensi da comprometterne la serenità della propria esistenza.

La cura della somatizzazione dell’ansia

In presenza di un disturbo d’ansia è importante non ignorare i sintomi e cercare in tutti i modi di porre rimedio ad una situazione che, con molta probabilità, rischia di danneggiare il normale svolgersi della vita quotidiana della persona afflitta.

Il primo passo è giungere a capire insieme ai medici, mediante esami specifici, che quelli accusati sono sintomi da ansia somatizzata in modo tale da escludere quindi ogni possibile origine organica del dolore. La cura del disturbo d’ansia, e conseguentemente di tutti i sintomi derivanti, passa in primo luogo attraverso un percorso di psicoterapia alla quale, a seconda dei casi, il medico potrà ritenere opportuno affiancare una terapia psicofarmacologica.

 

 

La depressione lieve, detta anche distimia (o disordine distimico) è una forma di disagio depressivo minore nel senso che comporta una minore compromissione delle relazioni sociali e dell’attività lavorativa. La depressione lieve colpisce circa il 17 per cento della popolazione nell’arco della vita.depressione lieve

Si presenta con disturbi lievi ma con andamento cronico; solitamente (causa la relativa levità degli effetti) è frequente che il malato non ne sia consapevole in quanto convinto che il disagio quotidiano sia parte integrante, da sempre, del suo carattere.

Generalmente la persona distimica riesce ad espletare le proprie funzioni lavorative e ad avere rapporti sociali, ma in modo nettamente diminuito e con uno sforzo notevole anche nelle cose più “normali” e di cui le persone con le quali si relaziona, spesso anche i familiari stessi, ben difficilmente si rendono conto. L’atteggiamento quasi perennemente cupo, triste e taciturno può facilmente causare stizza, se non rabbia, nel prossimo che lo considera solo un fastidioso pessimista che si crede assuma volontariamente codesto atteggiamento per cause che non vuole esprimere, ed infatti o non esistono o sono sopravvalutate negativamente, e questo il distimico lo sa, ma anche il chiedere aiuto è una di queste difficoltà che sente insormontabili. In questo modo si innesca un circolo vizioso che rafforza nella persona che soffre di depressione lieve la bassa autostima, l’insicurezza e l’autopercezione negativa accrescendo lo sconforto e l’introversione.

Questa forma di depressione può influenzare la vita professionale e personale di chi ne soffre, ma può essere gestita attraverso un percorso, che prevede la diagnosi e l’assistenza di uno o più professionisti.

Una condizione di distimia non è da sottovalutare, in quanto potrebbe portare a:

  • Una qualità della vita inferiore
  • Disturbo depressivo maggiore, disturbi d’ansia o altri disordini dell’umore
  • Abuso di sostanze
  • Difficoltà relazionali e conflitti familiari
  • Difficoltà scolastiche e lavorative
  • Pensieri o comportamenti suicidari
  • Disordini di personalità o altri disordini mentali

Come si riconoscono i sintomi della depressione lieve

I sintomi della depressione possono presentarsi in forma lieve, moderata e grave. Con la prima, ci si sente triste per la maggior parte del tempo o si può non provare interesse in attività che una volta erano piacevoli. Inoltre, la depressione lieve è generalmente accompagnata da alcuni (di solito non tutti) dei seguenti sintomi:

    • Presenza pervasiva di una sensazione di tristezza
    • Dormire troppo o troppo poco
    • Sensazione ricorrente di stanchezza
    • Pigrizia
    • Maggiore irritabilità
    • Difficoltà a concentrarsi
    • Sensi di colpa ingiustificati
    • Perdita dell’appetito o aumento di peso
    • Sensazione d’indegnità

depressione nell'uomo

Come distinguere la tristezza dalla depressione

Un avvenimento importante nella vita, come la morte inattesa di un familiare o di un caro amico può scatenare sintomi simili a quelli della depressione. Tuttavia, potrebbe non essere la forma più grave di questa patologia.

Il contesto e la durata dei sintomi possono aiutare, in parte, a stabilire se si tratta di questo disturbo o semplicemente di una reazione legata al cordoglio. Anche se in genere il senso di inutilità e i pensieri suicidi non sono presenti quando si è in lutto, durante la depressione lieve tendono a manifestarsi stati d’animo e pensieri negativi, incapacità di trarre piacere dalle attività preferite o altri sintomi similari. Questa sintomatologia può essere presente per la maggior parte del tempo.

Quando però il cambiamento di umore durante il lutto si trasforma in angoscia, e inizia a influenzare la propria vita con la presenza costante di pensieri negativi, allora potrebbe trattarsi di qualcosa che va oltre il normale cordoglio; potrebbe trattarsi di depressione reattiva, una forma strettamente legata ad un avvenimento doloroso come un lutto (o ad esempio a separazioni coniugali, alla rottura di un fidanzamento, ad un licenziamento, a fallimenti lavorativi o economici, a disturbi fisici, ad essere stati vittime di un reato o abuso subito anche in età infantile, a problemi con la giustizia, a una bocciatura a scuola) ma caratterizzata da un’intensità e una durata sproporzionate rispetto alla “normale” reazione di fronte a simili eventi. 

L’elemento tipico della depressione reattiva è un sentimento di tristezza vissuto a livello cosciente e con forte partecipazione emotiva. Questa tipologia di disturbo dell’umore è molto frequente nel periodo dell’adolescenza o durante la vecchiaia, ma può insorgere a qualsiasi età, con una maggiore incidenza tra la popolazione di sesso femminile.

Quali sono i sintomi della depressione reattiva?

I primi sintomi della depressione reattiva si manifestano in maniera acuta e improvvisa. Come accade per la forma endogena della malattia, la persona presenta una perdita di interesse verso tutto ciò che lo circonda, umore triste e facilmente mutevole, apatia e pianti frequenti. A questi, poi, si aggiungono:

  • ansia
  • tristezza e continua sensazione di eventi catastrofici imminenti
  • disturbi fisici quali cefalee, bruciori di stomaco e amenorrea
  • disturbi dell’alimentazione
  • disturbi del sonno
  • allusioni alla morte o al suicidio

Il momento più delicato per le persone affette da depressione reattiva è la sera, poiché con il buio i sintomi tipici della malattia si accentuano.

ragazza depressa

Terapia e cura della depressione reattiva

In questo tipo di disturbo il trattamento è prevalentemente, se non esclusivamente, psicoterapeutico e lo scopo principale è quello di favorire una normale reazione all’evento doloroso scatenante.
Si cerca di evitare un intervento farmacologico che potrebbe rivelarsi dannoso sia perché può instaurare una dipendenza “psicologica” sia perché può dare assuefazione. Per questo tipo di disturbo l’uso di farmaci antidepressivi viene ritenuto superfluo, a meno che il quadro clinico non assuma le caratteristiche di un grave disturbo depressivo.

A volte può essere necessario l’uso di ipnoinducenti (quando i disturbi del sonno sono persistenti ed invalidanti) e/o di ansiolitici, se il livello di ansia, tensione e irrequietezza compromettono la capacità di affrontare le esigenze ed i problemi quotidiani.

Inoltre è importante individuare il rischio di suicidio o di complicazioni psichiatriche (alcoolismo, farmacodipendenza,..) per adottare tempestive misure terapeutiche e, se possibile, preventive. In alcuni casi può essere necessario ricorrere al ricovero in una struttura adeguata.

La depressione lieve nell’ottica relazionale

Humberto Maturana afferma che siamo animali amorosi, che l’amore è l’esperienza relazionale che definisce la condizione umana e che ci ammaliamo quando l’amore viene intralciato; quando la nutrizione relazionale (amore) in una coppia o in una famiglia è deficitaria costituisce modelli nocivi che si collegano alla distimia (depressione lieve) e alla depressione.

Quali sono le differenze tra la distimia (depressione lieve) e la depressione?

Nel depresso (depressione maggiore) sempre dal punto di vista relazionale, il contesto familiare è caratterizzato da una coniugalità armoniosa ed una genitorialità disfunzionante. La coppia è molto affiatata, i figli sono trattati in modo inadeguato, talora disprezzati o svalutati e inoltre non considerati “sufficientemente attraenti” per partecipare ai giochi relazionali, come invece accade per i distimici.

La genitorialità di un depresso si basa più su richieste e persino sullo sfruttamento che sulla valorizzazione di un ruolo riconosciuto al figlio. Spesso nelle descrizioni dei figli prevale un’aria narcisistica e le comunicazioni sono spesso cariche autosufficienza; sotto un’apparenza benevola che quasi mai trascura i bisogni materiali dei figli,  è celato un atteggiamento critico e di disprezzo. Sono “esseri perfetti” e i figli sono un vago passatempo finché rispondono alle proprie aspettative, ma si disinteressano appena mostrano difficoltà o carenze.

I “distimici” a volte appaiono polemici ed affezionati alle discussioni, mentre i “depressi” sono soggetti ipersocievoli con una grande abilità nel dare una buona impressione, nel risultare simpatici. Sono propensi all’accettazione delle norme e ad auto incolparsi se queste non funzionano. Si sentono sottoposti ad un eccesso di norme e ad una responsabilità esagerata, ma sono molto resistenti ad affrontare una terapia, perché il contesto familiare esige un’osservanza assoluta della “rispettabilità delle apparenze”.

La famiglia del depresso: origini familiari di una patologia

La depressione rappresenta un tema controverso per gli addetti ai lavori. Da molti anni, essendo questo disturbo in drammatico aumento, psichiatri e medici, spalleggiati dal potente sponsor delle case farmaceutiche, si battono affinché la depressione rientri a pieno titolo tra le “patologie organiche”.

Questo tipo di pazienti si presta molto bene ad essere medicalizzato. Accettano volentieri ogni tipo di farmaco e, nel momento in cui la terapia non funziona, si autocolpevolizzano. In fin dei conti, spesso, sono cresciuti in un ambiente familiare che sconsiglia la critica, l’espressione della frustrazione e dell’ostilità e, per questo motivo, si sentono più sicuri in ambienti medici che psicoterapeutici.

Tuttavia, nonostante la netta prevalenza di interventi farmacologici, si ritiene che non ci sia disturbo psicologico più legato ad aspetti relazionali, in particolar modo familiari. Soltanto che tale ordine di cause non è sempre evidente e non c’è propensione a parlarne, per lo meno non come la controparte medica.

E’ necessaria una precisazione: quando si afferma che la depressione è un disturbo medicalizzato non si intende negare l’importanza degli aspetti biologici. Essi costituiscono la base sulla quale si innestano le nostre esperienze, una sorta di terreno su cui si impiantano gli effetti delle relazioni umane. Tuttavia per avere un buon raccolto non si può solo concimare “chimicamente” il terreno, bisogna curarlo giorno per giorno, scegliendo che cosa seminare.

depressione sintomi

 Le caratteristiche della famiglia di un distimico

Dal punto di vista relazionale, si possono iscrivere in una situazione in cui vi è un buon funzionamento delle funzioni genitoriali e una coniugalità disfunzionale, caratterizzata dalla difficoltà della coppia genitoriale di risolvere i suoi conflitti. Un ragionevole interesse e coinvolgimento verso i figli da una parte, ed una conflittualità coniugale abbastanza intensa dall’altra, costituisce la cornice entro la quale la coniugalità disfunzionale altera, rovina la relazione con i figli. In queste famiglie, la coppia genitoriale è tutt’altro che coesa; il livello di conflitto tra i coniugi è molto alto e questi non esitano ad utilizzare i figli all’interno delle loro battaglie.

Catturato in questo “gioco” familiare, il futuro distimico sperimenta l’ansia legata al conflitto di lealtà, quando si avvicina “parteggiando” per uno dei genitori, si associa rapidamente la perdita della relazione con l’altro.

Il tema della perdita diverrà quindi centrale per la persona, generando tristezza e ansia, ogni qualvolta la storia di vita proporrà mancanze relazionali significative (rottura di rapporti di coppia ad es.).

Sebbene all’interno della famiglia le capacità genitoriali siano ben conservate, l’interesse per i figli è ostacolato dalla difficoltà della coppia a risolvere i propri conflitti, portando ciascun membro alla disperata ricerca di alleati. Si tratta, per usare una metafora, di una atmosfera politica, fatta di alleanze, coalizioni e continue rivalità. Se il primo figlio cade nel campo della madre, è molto probabile che il secondo finisca nell’orbita del padre, innescando una serie di conflitti anche tra fratelli. Questo ci permette di capire come il clima emotivo familiare sia costantemente teso ed esplosivo, con un alto livello di conflitti, punizioni e ricompense. La comunicazione intrafamiliare è fortemente condizionata dalle alleanze, si può parlare con gli alleati ma non è concesso essere aperti con gli antagonisti. Quando il figlio distimico si troverà a socializzare per esempio con gli amici, a scuola, in parrocchia o in vari contesti sociali, proverà molta ansia perché si sentirà schiacciato dalle norme morali, sociali, scolastiche ecc. e avrà difficoltà a legarsi (protezione, vicinanza ecc.). L’ansia che proverà, è la risultante del conflitto tra attrazione ed evitamento delle situazioni di socializzazione.

Le caratteristiche della famiglia d’origine nel Disturbo Depressivo Maggiore

A differenza del distimico, il futuro depresso grave viene al mondo all’interno di una coppia coesa, in cui il livello di conflitto è basso e la tendenza è quella di un funzionamento generalmente armonioso. Questa coppia dando priorità alla coniugalità sulla genitorialità, presenta difficoltà a svolgere le funzioni genitoriali. Tali difficoltà sovente si traducono in richieste eccessive e scarso riconoscimento degli sforzi che il futuro paziente compie. Questo tipo di comportamento dei genitori non è necessariamente manifesto, può essere anche estremamente sottile, ambiguo. L’esempio tipico è la figlia nubile o il figlio “debole di costituzione” che devono occuparsi dei genitori anziani o malati. Questi non sono necessariamente poco riconoscenti ma sostanzialmente è sempre la stessa persona a doversi sottomettere alle richieste.

Ad una prima analisi la famiglia della persona depressa può apparire molto unita ma in realtà sotto questa parvenza di coesione si rintraccia un fondo di espulsività e disimpegno. Anche se si parla molto di unità, il soggetto può avere l’impressione che la sua presenza sia in realtà superflua. La coppia genitoriale è effettivamente coesa ma esiste un forte contrasto tra la forza di questo legame ed il distacco emotivo nei confronti dei figli, soprattutto espresso nei confronti del paziente.

Lo stile genitoriale è tendenzialmente autoritario, anche se non necessariamente dispotico. Il genitore che esercita l’autorità ha un ruolo più attivo nello sviluppo del disturbo depressivo; è più esigente, svalutante, squalificante. Per contro, l’altro genitore, sebbene risulti più amorevole e accondiscendente, non può né vuole rovesciare le “regole del gioco”, contribuendo in modo passivo al mantenimento dello status-quo.

Il livello di adattabilità della famiglia alle situazioni sociali è molto scarso; ogni cambiamento è osteggiato e vissuto come una minaccia, così come le fasi di sviluppo e di crescita da parte dei figli.

Il tema che contraddistingue il nucleo familiare è la necessità di rispettare, di essere all’altezza, delle richieste esterne e delle apparenze sociali. Il successo sociale diviene un elemento indispensabile per essere accettati dalla coppia genitoriale; tutto questo si traduce in un alto livello di richieste e di obiettivi difficili da raggiungere per i figli, costretti a vivere in un contesto basato su richieste continue e irraggiungibili. Tale meccanismo innesca una spirale di situazioni, in cui si da per scontato il fallimento del futuro paziente rendendo, di conseguenza, l’incapacità “reale ed effettiva”.

In un clima familiare di questo tipo il giovane adulto si abitua a fallire e a non ribellarsi, costruendo la propria identità intorno a tematiche quali l’autoaccusa, il bisogno di perfezione, la necessità di rispettare le apparenze. Questo aspetto spiega il motivo per cui se il depresso cede alla disperazione cerca nel suicidio, atto supremo di depressione, la soluzione alla sua situazione. Suicidandosi la persona si autopunisce per non essere stata all’altezza delle richieste che gli altri esigevano da lui e, allo stesso tempo, si vendica dell’ingiusto trattamento di cui è stato oggetto, lasciando un amaro senso di colpa (esattamente ciò che la persona sente, quindi una sorta di: “occhio per occhio, dente per dente”) in quelli che sopravvivono.

Il periodo in cui la persona è maggiormente vulnerabile agli effetti nefasti del clima familiare è l’infanzia, inclusa la preadolescenza. Se il disturbo depressivo non emerge in seguito a stress durante l’adolescenza e la prima età adulta, diviene probabile che si “attivi” durante la prima “importante” relazione di coppia, nel momento in cui l’individuo comprende, rimanendone deluso, che, neanche in quel rapporto, l’assoluto bisogno di sostegno e aiuto può essere soddisfatto in toto.

depressione coppia

La coppia nei casi di depressione lieve

La coppia del distimico si costruisce secondo modalità diverse dalla coppia del depresso “classico”. Generalmente si tratta di una relazione più equilibrata, in cui il potere decisionale è distribuito equamente ma che, proprio per questo, è più vulnerabile al conflitto. Effettivamente il futuro distimico tende a scegliere una persona con una storia familiare simile alla sua. Quando una nuova perdita (la morte del genitore alleato, l’emancipazione dei figli, la disoccupazione, ecc.) scatena la dinamica sintomatica nella persona, l’equilibrio di coppia si rompe, generando conflitti ancora più potenti.

Il meccanismo che si instaura è il seguente: a causa dell’impatto di eventuali perdite significative, il futuro paziente esprime delle lamentele che vengono percepite eccessive dal coniuge; tale percezione impedisce all’altro di mettere in atto adeguate risposte di sostegno e solidarietà. Il suo atteggiamento critico è percepito dal partner, che risponde, a sua volta, con distanziamento ed ostilità. L’emergere dei sintomi ansiosi e depressivi, che avviene solitamente in questa fase, determina un riavvicinamento del coniuge asintomatico, ma tale ricongiungimento tende ad essere vissuto, con il tempo, come manipolatorio e non autentico dal partner (“non lo fa per me, ma per non avere problemi”, ecc.).

Così facendo, la coppia si appiattisce intorno ad un processo di accuse, recriminazioni e sfiducia, che rendono cronico il disturbo.

Come si costruisce invece la coppia nei casi di depressione grave?

Considerando la descrizione (pur sempre generale) della famiglia del depresso, non sorprende che questi ricerchi protezione, tentando di fuggire al più presto e con urgenza, dai legami che lo imprigionano nella squalifica. La scelta del partner è dunque connessa con la necessità di ottenere ciò che gli è sempre mancato: una relazione caratterizzata da protezione e valorizzazione, piuttosto che da richieste. Nel momento in cui la incontra è possibile che i problemi finiscano.

Tuttavia, spesso succede che il futuro depresso si lasci ingannare da un’offerta relazionale solo superficialmente adeguata alle sue esigenze. Il tipico coniuge del depresso, infatti, è qualcuno che ha bisogno di mostrare a se stesso e al mondo che è in grado di sostenere e proteggere chi ha bisogno del suo aiuto. Il problema insorge perché l’aiuto che offre e di cui inizialmente la persona potenzialmente depressa usufruisce, è concesso più per le esigenze del dispensatore, che deve mostrare al mondo la sua forza, che di chi lo riceve.

Nel momento in cui il futuro paziente si rende conto del nuovo inganno (considerando quelli “subiti” nella famiglia di origine) può darsi per vinto, soccombendo definitivamente alla depressione.

La nuova coppia, una volta emersi i sintomi, si struttura in modo rigido: il paziente si abbandona progressivamente al disturbo ed il coniuge acquista sempre maggiore responsabilità e prestigio. Questa facciata serve al compagno per mascherare le sue debolezze; tanto più la persona depressa starà male quanto più il coniuge potrà dimostrare agli altri la sua bontà, la sua abnegazione, il suo impegno.

Riassumendo, la coppia si attorciglia intorno ad un meccanismo circolare, per cui le continue richieste di attenzione del paziente, frustrate dal consorte incapace di farvi fronte, fanno emergere i sintomi; questi innescano ancora di più una “reazione di aiuto” nel membro “sano” della coppia, rafforzando in chi manifesta il disturbo, l’idea di essere incapace, malato e dipendente. Se il meccanismo non viene interrotto la depressione si cronicizza.

 

 

L’anoressia e la bulimia, insieme ad altri, sono disturbi del comportamento alimentare (DCA) in crescente espansione. Diffuse soprattutto fra gli adolescenti, prevalentemente di sesso femminile (ma la percentuale nei maschi con questi disturbi è in ascesa) esse esprimono una sofferenza che va al di là del puro problema nutrizionale, o delle varie problematiche alimentari e coinvolge la sfera psicologica e quella relazionale.

disturbi del comportamento alimentare

E’ un fenomeno complesso, in cui si intrecciano molteplici componenti, legate a influenze socio-culturali, aspetti psicologici individuali ma soprattutto dinamiche familiari, le quali evidenziano un “corpo familiare” che sembra arrestarsi nella propria capacità evolutiva: componenti quindi che hanno un filo conduttore che le attraversa: il tentativo impossibile di sospendere il tempo dello sviluppo e della crescita.

I disturbi del comportamento – DCA come sciopero della crescita

Nelle famiglie vi sono due processi evolutivi altamente interdipendenti: quello dell’adolescente, che deve affrontare il delicato passaggio di crescita e quello della famiglia, che da nido deve trasformarsi in trampolino, vale a dire da pista di decollo per la partenza, ma anche di atterraggio, per un ritorno maturo e reversibile dei figli.

Secondo una visione sistemica ad ogni disagio adolescenziale va ricercata una difficoltà o un blocco del gruppo familiare ad affrontare questa fase dello sviluppo, e non è un caso che  proprio in questo delicato periodo di transizione si assista all’insorgenza di manifestazioni sintomatiche, che rispecchiano la difficoltà a separarsi dalla famiglia.

In alcune famiglie tale processo di riorganizzazione si inceppa comportando rigidità dei ruoli, di aspettative e regressioni psicologiche importanti.

I disturbi del comportamento alimentare (DCA), insieme ad altri disturbi tipici dell’adolescente, possono essere riconosciuti come un vero e proprio sciopero della crescita.

Cosa succede nelle famiglie degli adolescenti con disturbi del comportamento alimentare (DCA)?

Un’accurata esplorazione delle dinamiche familiari associate ad un disturbo del comportamento alimentare (DCA) lascia emergere una difficoltà da parte degli adulti ad accogliere e favorire il cambiamento che la crescita dei figli comporta e che trova la sua origine in una più generale difficoltà ad accettare il trascorrere del tempo.

I genitori di adolescenti si trovano, mediamente, in un  periodo della vita in cui, pur essendo e sentendosi ancora validi ed attivi, cominciano a fare i conti con i segni dell’età che avanza. Il non riuscire a proiettarsi in un futuro che comporta l’avvicinarsi della vecchiaia può spingere i genitori a mettere inconsapevolmente in atto un illusorio tentativo di fermare, o almeno rallentare, il corso del tempo.

E’ come se, non riconoscendo adeguatamente il nuovo stato di crescita degli adolescenti, rimanessero emotivamente nella condizione di una famiglia con bambini piccoli con genitori giovani.. Inoltre, la naturale riedizione della propria adolescenza, che sembra essere riattivata da quella dei figli, comporta l’avvicinamento a propri conflitti irrisolti.

Essi finiscono allora per attribuire ai figli sentimenti, stati d’animo, aspirazioni che hanno provato nel corso della loro adolescenza. Oppure li spingono a svolgere attività o a raggiungere obiettivi che non hanno potuto raggiungere.

E’ importante che i genitori o i familiari di chi soffre di un disturbo dell’alimentazione abbiano degli strumenti a disposizione per aiutare meglio i propri figli. Conoscere la malattia, comprenderla nelle sue caratteristiche e nella sua evoluzione è un passo indispensabile.

La famiglia, insieme al paziente che soffre di disturbi del comportamento alimentare, è da considerarsi spesso una vittima della malattia e delle sue conseguenze.

E’ per questo motivo che la terapia familiare è la risposta a queste problematiche, perché consente la ripartenza del ciclo di vita familiare su basi sane e armoniche.

disturbi alimentari

Alcuni consigli pratici per chi ha familiari o amici con disturbi alimentari

Le domande

Quando in una famiglia il figlio o la figlia soffre di un disturbo dell’alimentazione i genitori si pongono molte domande alle quali è importante rispondere. Ecco solo alcune delle domande che più frequentemente vengono poste:

  • Ma dove ho sbagliato?
  • Cosa posso fare per aiutare mia/o figlia/o?
  • Quale atteggiamento va tenuto? Meglio essere comprensivi ed accondiscendenti o decisi e autoritari?
  • Qual è la cura migliore? A chi rivolgersi?
  • Come convincere mio figlio/figlia a curarsi?
  • Si può guarire?
  • Come posso scoprire se vomita, se prende lassativi o diuretici?
  • Come comportarsi di fronte alle bugie?
  • Come gestire i pasti?

I sensi di colpa

Uno degli aspetti più importanti che emerge quando in una famiglia uno dei figli comincia ad avere problemi a livello psicologico, è la ricerca del perché. Un pensiero ricorrente nei familiari è: “è colpa nostra?”, “dove abbiamo sbagliato?”. E’ importante ricordare che colpevolizzare sé stessi o gli altri non ha mai aiutato nessuno.

Le cause dei disturbi alimentari sono molteplici e il comportamento di chi soffre di questi disturbi dipende da moltissimi fattori, solo alcuni direttamente collegati al funzionamento familiare.

L’interrogativo da porsi non è: “di chi è la colpa?”, ma: “qual è la cosa migliore da fare adesso? Cosa possiamo fare per aiutare nostro/nostra figlio/figlia?”.

Il senso di colpa impedisce di vedere le vie di uscita, causa dissapori tra i familiari (che magari si incolpano a vicenda) e contribuisce a mantenere o  a cronicizzare il disturbo stesso.

Anche quando è il figlio o la figlia a parlare delle “colpe” dei genitori, bisogna evitare di cadere in questo “tranello”. E’ importante essere uniti poiché all’interno della famiglia esiste un obiettivo comune: combattere il disturbo dell’alimentazione (e non combattere tra persone).

Anche quando le difficoltà tra coniugi o tra familiari esistono anche da prima dell’insorgenza del disturbo, questo obiettivo comune deve aiutare ad agire in sintonia.

Rinfacciarsi le colpe non aiuta nessuno: è più importante guardare in avanti e cercare soluzioni per stare meglio.

Allo stesso modo, è importante che i genitori non colpevolizzino la persona malata, poiché anche questo non serve.

DCA: conosciamoli

Occorre sapere innanzitutto che tutti i disturbi alimentari sono caratterizzati da un’alterazione del rapporto che un individuo ha con il cibo e con il proprio corpo e dalle conseguenze che questo comporta. L’alimentazione e la forma fisica diventano per la persona il fulcro attorno al quale ruotano tutte le altre attività quotidiane, un pensiero fisso e costante che assume un’importanza esagerata nella valutazione di se stessi.

Anoressia

L’anoressia nervosa è probabilmente il disturbo più conosciuto. È caratterizzato da una riduzione drastica dell’introito energetico tale da portare a un peso corporeo significativamente basso, inferiore al peso minimo normale.
Ciò che caratterizza l’anoressia è una paura intensa di ingrassare, anche quando il peso è molto basso. Paura che porta a un controllo esasperato della quantità di calorie ingerite e all’eliminazione di alcuni alimenti ritenuti pericolosi. Il peso o le forme del corpo diventano un pensiero costante e la magrezza l’unità di misura per valutare se stessi e il proprio valore.

Bulimia

La bulimia nervosa è caratterizzata da episodi ricorrenti di abbuffate compulsive. Esse consistono nel mangiare in un periodo circoscritto una quantità di cibo significativamente maggiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo e si accompagna a un senso di mancanza di controllo sul mangiare durante l’episodio. Alle abbuffate fanno seguito comportamenti impropri di compenso come vomito, digiuno, attività fisica intensa, uso di lassativi.

Il disturbo di alimentazione incontrollata si distingue dalla bulimia perché vi sono episodi di abbuffate ai quali non fanno però seguito condotte compensatorie come nella bulimia nervosa.

Ortoressia e Vigoressia

Negli ultimi anni sono giunti all’attenzione dei clinici altri due disturbi: l’ortoressia e la vigoressia, ancora poco conosciuti. Il primo è caratterizzato da una maniacale ossessione per i cibi salutari. La persona è spinta a fare lunghe e quotidiane ricerche sulle proprietà nutritive degli alimenti, al punto da impoverire il resto delle proprie attività ed eliminare intere categorie di alimenti, nonché metodi di cottura.

La vigoressia o bigoressia è caratterizzata, al contrario rispetto all’anoressia, dalla paura di essere troppo esili e da qui il ricorso a un’attività fisica molto intensa e un’alimentazione iper proteica o arricchita di anabolizzanti e integratori.

anoressia

Quali sono i segnali da non trascurare?

  • Fisici: variazioni di peso, pallore, sensibilità eccessiva al freddo, stanchezza costante, svenimenti, perdita dei capelli, rossore agli occhi, amenorrea (scomparsa del ciclo mestruale), aumento della massa muscolare, calli sulle nocche e deterioramento dei denti (nel caso di vomito frequente).
  • Comportamentali: comparsa di rituali alimentari (tagliare il cibo in pezzi molto piccoli, uso di bacchette…) lentezza eccessiva durante i pasti, evitamento di situazioni conviviali, sparizione di alimenti dalla dispensa, lettura di tutte le etichette alimentari e utilizzo di applicazioni per il conteggio delle calorie, necessità di andare in bagno dopo i pasti, aumento dell’attività fisica, uso di integratori, attenzione ai metodi di preparazione dei pasti quando cucina qualcun altro, eliminazione di alcuni alimenti prima consumati regolarmente, rifiuto di alcuni alimenti, negazione di ogni osservazione riguardo alla propria forma fisica, negazione dello stimolo della fame, cambio nel tipo di abbigliamento.
  • Emotivi: repentine variazioni di umore, mancanza di interesse nei confronti delle relazioni sociali, difficoltà a portare a termine gli impegni presi, eccessiva sensibilità nei confronti di ogni commento riguardo alla forma fisica e al cibo, estremo controllo di cosa e quanto ci si alimenta, eccessiva rigidità, bassa autostima.

Cosa fare quando una persona cara soffre di disturbi alimentari?

Come facciamo a capire se nostra figlia, sorella, fratello, fidanzata/o o amica/o soffre di un disturbo del comportamento alimentare (DCA)? Come distinguere un sano dimagrimento dal sintomo di un rapporto difficile col cibo? Chi soffre di disturbi alimentari e in generale chi ha un rapporto distorto con il cibo prova molta vergogna, paura e senso di colpa e tende a negare e tenere nascosto il proprio problema.

La prima cosa da fare nel momento in cui si notano segnali come quelli descritti è porsi in una condizione di dialogo e ascolto aperto senza concentrarsi su cosa e quanto la persona mangia o non mangia, si allena o meno, bensì sul suo benessere emotivo.
Chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare è molto fragile e ciò che per noi è chiaramente un problema, è nel suo caso la miglior soluzione che ha trovato per gestire le sue emozioni.

Per questo è importante muoversi tempestivamente, ma sempre in maniera rispettosa. Non colpevolizziamoci né colpevolizziamo chi ha questo problema, ma tentiamo di fare uno sforzo di comprensione del significato dei sintomi e della gravità della situazione con l’aiuto di uno specialista.

È importante richiedere subito una consulenza con uno psicoterapeuta esperto in queste problematiche per fare una prima valutazione e capire quale potrebbe essere il percorso terapeutico più indicato per il proprio familiare o per trovare insieme delle strategie di intervento qualora la persona rifiuti di farsi aiutare.
Chi soffre di un DCA è in genere ambivalente rispetto alla possibilità di farsi aiutare: da una parte vorrebbe uscire dalla “gabbia” che si è costruito, ma dall’altra ne teme le conseguenze. Non giudichiamolo per questo, ma empatizziamo con la sua paura e sosteniamolo mettendoci a nostra volta nelle condizioni di ricevere un sostegno psicologico.

Per questa ragione è fondamentale che siano i familiari o gli amici a cogliere i segnali e accompagnare la persona, insieme a tutta la famiglia, verso un trattamento terapeutico.

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Psico oncologia che cosa è?

La Psico oncologia si occupa delle reazioni emozionali dei pazienti con tumore, dei loro familiari e dello staff coinvolto nel percorso di cura, ed è focalizzata sulle variabili psicologiche, sociali e comportamentali che influenzano la prevenzione, l’aderenza ai trattamenti terapeutici e la qualità di vita.

Psico oncologia napoli

La Psico oncologia si pone dunque come disciplina specifica “di collegamento” tra l’area oncologica e quella psicologico-psichiatrica nell’approccio al paziente con tumore, alla sua famiglia e all’équipe che di questi si occupa. Il Psico oncologo è colui che ti aiuta in questo percorso.

Curare un paziente oncologico, infatti, non significa soltanto debellare il cancro, ma essere attenti a tutti gli aspetti che questa malattia comporta; è necessario provvedere a mantenere in “buona forma” il corpo, la mente, lo spirito, le competenze socio-relazionali. Tutto questo per essere realizzato ha bisogno di una organizzazione complessa basata sul lavoro di una équipe pluridisciplinare; un intervento psicologico inizia dunque dalla prima accoglienza, quando si conosce il paziente oncologico, che deve essere compreso nella sua totalità e non solo come “malattia”; nel primo incontro si pongono le basi della futura relazione con il paziente e quindi della qualità dell’assistenza/cura/riabilitazione del paziente e della sua famiglia.

Aspetti psicologici della malattia oncologica

Ogni paziente vive e affronta la malattia in modo soggettivo: si attiva un processo di adattamento che comporta una trasformazione radicale nella sua esistenza.

I sentimenti suscitati sono molto intensi, come un senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia. In seguito diverse domande invadono la mente del paziente: “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”. 

Il modo di reagire al proprio stato di salute o di malattia, così come lo sviluppo, il decorso e la prognosi stessa della malattia oncologica sono influenzati dall’interazione di diversi fattori: di tipo biologico, psicologico e sociale.

La comunicazione della malattia tumorale rappresenta uno degli eventi più stressanti che alcune persone si trovano a dover affrontare nel corso della loro vita, un cambiamento non solo fisico ma anche mentale: cambia il modo di percepire e sentire il proprio corpo, cambia la percezione che si ha del mondo, cambiano le relazioni sociali e interpersonali. Si tratta di una fase molto delicata e difficile sia per il paziente che per i suoi familiari: di fronte alla parola “cancro” la primissima reazione è avvertire un senso di confusione, sbandamento, un vero e proprio shock.

Il cancro è una parola che evoca emozioni angoscianti, rimanda a uno scenario altamente catastrofico nell’immaginario collettivo, ad una “condanna a morte”.

Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica, l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico influenzerà il tipo di adattamento psicosociale alla malattia.

L’atteggiamento e la modalità con cui si fronteggia la malattia utilizzati andranno ad influenzare non solo la qualità di vita successiva alla diagnosi, ma anche il grado di collaborazione che il paziente presta nel seguire più o meno i trattamenti medici e il decorso biologico della malattia.

colloquiare con malato cancro

Perché parlare con uno Psico oncologo

Chi si ammala di tumore spesso tace la propria sofferenza o ne parla senza comunicarla pienamente, dando per scontato che essa sia normale rispetto alla situazione che sta vivendo. Si tratta di un equivoco che può influenzare negativamente la qualità di vita e la possibilità di trovare le risorse emotive per far fronte ad essa.

Dati provenienti da studi italiani e internazionali indicano che una percentuale tra il 30% e il 40% dei pazienti oncologici soffre di livelli significativi di disagio emozionale, ma meno del 10% riceve un intervento specialistico. Quanto rilevato appare preoccupante in quanto il tumore modifica la vita delle persone e ha un forte impatto sul piano esistenziale, psicologico e sociale.

A volte l’aiuto offerto dai medici, dagli infermieri e dai familiari è sufficiente a supportare la persona nel percorso di adattamento. Altre volte, tuttavia, reazioni di ansia, demoralizzazione, problemi del sonno, difficoltà nella vita sessuale, di coppia e familiare eccedono le capacità cognitive e comportamentali di adattamento e in alcuni casi permangono anche al termine delle terapie.

Un supporto specialistico può essere, in questi casi, importante per favorire il miglior adattamento possibile al percorso oncologico.

Lo psico oncologo può fare molto all’interno dell’équipe medica, riconoscendo i bisogni del paziente e aiutandolo ad affrontare il grande percorso di cambiamento fisico e psicologico che dovrà inevitabilmente affrontare con la malattia. In una prima fase di  sostegno psicologico il paziente viene aiutato a elaborare il trauma conseguente alla diagnosi di tumore e a sostenere il “peso della malattia”, con l’obiettivo di:

– contenere l’ansia e le emozioni negative mantenendo un equilibrio psicologico;

– mobilitare meccanismi di difesa adeguati;

– favorire la comunicazione e l’espressione delle emozioni negative.

Il modo migliore di aiutare il paziente ad affrontare e superare lo shock iniziale sarà quello di rispettare i tempi soggettivi di accettazione della diagnosi medica, sostenendo e accogliendo le paure, i timore, i dubbi iniziali del paziente che, una volta superata la fase iniziale di disorientamento, potrà avviare un percorso di elaborazione/integrazione della malattia nella propria esperienza di vita, fino ad arrivare ad una piena consapevolezza e accettazione della patologia.

psicooncologia

In questa fase lo psico-oncologo potrà aiutare il paziente a gestire la malattia, a incoraggiare l’espressione e la comunicazione delle emozioni coinvolgendo anche i familiari, a sviluppare modalità più adattive di affrontare la malattia, a dare un senso a quanto accaduto, a ridare un senso di speranza e ottimismo verso il futuro.

La Psico oncologia pediatrica

La portata traumatizzante dell’evento cancro è ancora più dirompente quando riguarda un bambino. La psico oncologia pediatrica ha come finalità il benessere psico-fisico dei malati di cancro in età evolutiva, con un’attenzione specifica agli aspetti della malattia che possono interferire con lo sviluppo dei piccoli pazienti. E’ oggetto di attenzione anche l’ambiente familiare del paziente oncologico ove la malattia ha ripercussioni decisamente non trascurabili.

Tra gli effetti psicologici vi sono problemi di autostima legati al cambiamento del proprio aspetto fisico, angosce di morte (sopra gli 8-9 anni di età) e sindrome della spada di Damocle (timore di recidive), allucinazioni ed effetto Alien (percezione di distruzione dall’interno), isolamento, aggressività, squilibri nei rapporti familiari.

Nell’intervento psicologico a sostegno di bambini e famiglie, ci si trova di fronte persone che generalmente non presentano una patologia psichiatrica, ma stanno vivendo una situazione traumatica, che altera l’equilibrio preesistente e può ostacolare il normale sviluppo psicofisico del bambino. In alcuni casi invece, la diagnosi oncologica può far emergere aspetti psicopatologici precedentemente compensati.

L’obiettivo di un intervento di psico-oncologia pediatrica è favorire l’integrazione di questa esperienza, benché penosa, nella storia e nell’identità individuale e familiare, allo scopo di salvaguardare la qualità della vita presente e futura, prevenendo per quanto possibile, gli effetti psicologici collaterali a medio e lungo termine.

Psico-oncologia della famiglia

Perché il percorso di cura sia efficace, sia in caso di prognosi positiva che di esiti infausti per lo Psico-oncologo è fondamentale prendersi cura anche delle famiglie delle persone con diagnosi di malattia oncologica.
Perché la famiglia? Perché agisce come prima linea di supporto emozionale e nello stesso tempo, costituisce, insieme al paziente, un’unica unità che richiede cure, attenzioni e supporto.
E’ attraverso forti sentimenti di angoscia, di incredulità, di paura, di disorientamento e spesso anche reazioni di negazione che il sistema familiare comincia lentamente a ridefinire i propri confini interni ed esterni, a riorganizzare ruoli, funzioni e competenze tra i vari sottosistemi, cercando di realizzare il migliore livello possibile di adattamento richiesto dalla situazione di crisi in cui si trova.
Un nuovo adattamento è possibile se sono disponibili risorse psicologiche e familiari (ad esempio, lo stile comunicativo) e supporto sociale.

Sulla base di quanto detto risulta importante che le strutture sanitarie prevedano degli interventi terapeutici sulla famiglia con malato grave e/o cronico garantendo contemporaneamente il benessere emotivo di tutti i membri, paziente compreso; laddove dovesse mancare questo Servizio nel pubblico, è opportuno che la famiglia si rivolga a un professionista privato con competenze in Psico-oncologia.

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L’adolescenza è il passaggio dall’infanzia all’età adulta ed è normalmente caratterizzato da quella fase definita come crisi adolescenziale.

L’adolescente si sente intrappolato in un tempo da cui teme di non uscirne mai più, soffre la perdita di punti di riferimento e non è ancora in grado di godere delle sue nuove conquiste e della sua nuova identità.

Deve elaborare il lutto da separazione nei confronti degli oggetti di investimento infantili, in primo luogo verso le figure genitoriali, per potersi rendere autonomo da loro ma, allo stesso tempo, ha segretamente bisogno del riconoscimento dell’adulto per sentirsi veramente autonomo. Questa necessità dà luogo a comportamenti contraddittori che vanno da moti di indipendenza e ribellione all’autorità degli adulti, a richieste regressive di attenzione.

l'adolescenza

Adolescenza periodo di cambiamenti

L’adolescenza è un periodo complesso, una fase di cambiamento a livello psicologico, fisico e sociale. Una serie di sfide si aprono agli occhi dei ragazzi e anche dei loro genitori, che vivono questa fase con angoscia e preoccupazione per i figli che crescono.

L’adolescente deve accettare il corpo che cambia con la pubertà, definire la propria identità e costruire un’immagine del sé adulto, acquistare maggiore indipendenza e gestire nuovi vissuti ed emozioni.

Si apre un mondo fatto di nuove relazioni, amicizie e prime esperienze di relazione intima che veicolano verso la scoperta della sessualità.

È quindi una fase che destabilizza l’individuo, spesso caratterizzata da inquietudini e difficoltà che, se non correttamente risolte, possono portare all’insorgenza di disagi anche gravi. Aiutare gli adolescenti ad affrontare questi cambiamenti non è sicuramente facile anche per l’estrema conflittualità che mostrano verso molte realtà.

Ma cosa significa essere adolescenti in un’epoca caratterizzata da frammentazioni familiari e crescente individualismo? Perché oggi i genitori sono confusi di fronte ai figli adolescenti, che usano linguaggi forti e contraddittori, non sempre facili da comprendere?

Quando si manifesta nell’adolescente umore depresso, rabbia, tristezza e chiusura, oppure un’azione violenta verso se stesso o verso gli altri è bene fermarsi, e chiedere aiuto ad un professionista che può offrire uno spazio protetto e non giudicante a tutta la famiglia, e lavorare con loro per ristabilire comprensione ed armonia.

Il ruolo dei genitori

I genitori vivono la fase adolescenziale con paura, con fatica ad accettare che il proprio figlio diventi grande e sono spesso accompagnati da senso di colpa davanti alle sue difficoltà.

Mamma e papà devono sostenere i loro figli nella sperimentazione della propria autonomia, pur mantenendo una posizione ferma sulle regole e i principi da rispettare. Devono essere una presenza silenziosa ed empatica in grado di sostenere il figlio nelle difficoltà, rispettare i suoi tempi, i momenti di crisi e quelli di inspiegabile euforia.

L’adolescente ha ancora bisogno della sicurezza familiare, anche se cerca di negarla, quindi essere presenti ma non invadenti è importante.

Costruire una relazione basata sulla fiducia, sul riconoscimento e espressione delle emozioni, sul sostegno in difficoltà e sulla definizione di “no” chiari e fermi già nell’infanzia, è un buon punto di partenza per affrontare la fase del conflitto e del rifiuto.

Conoscere i segnali e imparare a interpretarli permette di discriminare normali condotte da campanelli di allarme e riuscire a intervenire tempestivamente in caso di serio rischio.

Attenzione dunque ad una serie di segnali che, pur non essendo esaustivi, vengono qui riportati a titolo di esempio:

  • iperattività o costante ed eccessiva mancanza di volontà, sonnolenza continua (può essere il segnale dell’uso di sostanze stupefacenti)
  • Umore depresso, basso rendimento scolastico ed elevato numero di assenze a scuola, fobie/paure, sintomi da stress, problemi psicosomatici come continui mal di testa, mal di pancia, disturbi del sonno, enuresi (potrebbe essere sottoposto a fenomeni di bullismo)
  • l’indossare vestiti lunghi e coprenti anche se non necessario (può indicare pratiche di autolesionismo, come piccoli tagli o bruciature che si tentano di nascondere)
  • trascorrere molto tempo chiusi in bagno, specialmente dopo aver pranzato/cenato (può essere legato ad un disturbo alimentare, bulimia/anoressia)

I problemi degli adolescenti: cosa fare?

Quali sono le problematiche legate all’adolescenza? E, soprattutto, come interpretare e gestire alcuni comportamenti?

Immaturità della corteccia prefrontale

Vi sono motivi neurofisiologici di alcuni comportamenti tipici dell’adolescente, come per esempio la tendenza a dire bugie o l’incapacità di valutare le conseguenze di alcune azioni.

Le recenti scoperte in neuroscienze hanno evidenziato alcuni aspetti della maturazione cerebrale degli adolescenti che, fino a poco tempo fa, non erano stati identificati.

Quella che da sempre viene considerata una fase di crisi, una sorta di blackout da cui i genitori vorrebbero uscire il prima possibile, è quindi in realtà solo una tappa dello sviluppo come le altre, caratterizzata da fragilità e criticità ma anche da molte opportunità.

I comportamenti dell’adolescente non sono, infatti, dettati da un subbuglio ormonale ma da un’immaturità della corteccia prefrontale che, secondo le recenti scoperte, non ha ancora concluso completamente il suo sviluppo.

La corteccia prefrontale è la parte del cervello che regola molti aspetti della nostra vita mentale: la capacità di progettare e pianificare, di valutare le conseguenze delle proprie azioni, di agire con responsabilità. Chiunque abbia a che fare con un adolescente, quindi, non può prescindere dal prendere in considerazione questa immaturità e dall’interpretare alcuni comportamenti come conseguenze di questo stato.

I rapporti con i coetanei

I genitori di un adolescente restano facilmente sconcertati dai cambiamenti improvvisi che questa fase porta con sé.

Per esempio, di punto in bianco un adolescente può non aver voglia di uscire con i genitori, può iniziare ad allontanare mamma e papà per favorire, invece, i rapporti con i coetanei.

In questa fase si assiste a un intensificarsi dei vissuti sociali, dei rapporti che gli adolescenti vivono con i pari. L’adolescente vive un fermento emotivo, una nuova intensità nelle emozioni.

Tutto ciò lo porta a voler sperimentare le relazioni intensamente e i rapporti con i coetanei assumono una nuova importanza perché l’adolescente ha voglia di giocarsi tutto questo desiderio di intensità emotiva.

adolescenza problemi

Le bugie

Gli adolescenti sono capaci di raccontare incredibili ed enormi bugie, di elaborare racconti degni di una sceneggiatura cinematografica. A tutto ciò c’è una spiegazione scientifica.

L’immaturità della corteccia prefrontale apre a una grande capacità creativa. Questa potenzialità creativa viene spesso utilizzata dall’adolescente per scopi non proprio nobili, per esempio per inventarsi memorabili bugie. L’adolescente non è cattivo e non si comporta in modo scorretto per fare impazzire il genitore o per farlo soffrire. È la sua immaturità a impedirgli di fare altrimenti.

Qui, però, i genitori possono svolgere un ruolo importante: permettergli di accedere e usare tutta questa creatività ma in un contesto che preveda apprendimento, per non giocarsi un’opportunità simile, per esempio, nelle bugie.

Incapacità di pianificare

Come può fare un genitore a inserire questi cambiamenti e questa immaturità in un contesto non rischioso per il figlio, sostenendo il cambiamento da un punto di vista educativo?

È necessario che i genitori lascino all’adolescente la possibilità di sperimentare le sue relazioni ma in una cornice di regole che lo aiutino a muovere un comportamento senza grossi rischi. È fondamentale che queste regole siano sempre negoziate con i figli, però.

È altresì cruciale aiutare l’adolescente a organizzarsi, perché ancora immaturo per farlo da sé. La capacità di pianificare è una pretesa del genitore ma questa fase prevede che l’adolescente sia sostenuto, per esempio all’interno di una pianificazione scolastica.

Continua ricerca del conflitto con l’adulto

Gli adolescenti cercano in continuazione il conflitto con gli adulti. E tutto ciò è indispensabile per la loro crescita, dunque il conflitto è fortemente necessario.

L’adolescente esercita il conflitto con i genitori perché ha bisogno di rompere l’incanto infantile, di staccarsi dalle figure di riferimento che fino al giorno prima erano idealizzate, erano gli unici riferimenti possibili (la mamma e il papà).

Gli adolescenti hanno bisogno di prendere in mano la loro vita e, per farlo, devono rompere quel legame. Senza conflitto, non riescono a farlo.

Di fronte a una necessità del genere, cosa possono fare i genitori?

Il consiglio è di far convergere l’aspetto educativo dell’adolescenza sulla figura paterna o, comunque, usare un codice paterno. Quest’ultimo è regolativo ma incoraggia anche a sperimentare, a “lanciarsi” nel mondo. Invece, il codice materno tende a trattenere il figlio nell’infanzia, a rassicurare e a custodire.

È anche per questo motivo che il conflitto nell’adolescenza è più accentuato nei confronti della madre. In questo momento della crescita è importante avere anche altre figure di riferimento, come un allenatore o i professori, che rappresentino altri punti di vista e che non facciano sentire il genitore sempre solo e in primo piano nell’educazione del figlio.

Le opportunità

L’adolescenza non è solo litigio, conflitto e sofferenza. Anzi, lo è ma il suo “codice” di espressione e di comunicazione nasconde anche molte opportunità. Per esempio, le neuroscienze hanno evidenziato che nell’adolescenza si amplificano le capacità cognitive, si potenzia la memoria, si impara più facilmente e più rapidamente.

Questa enorme opportunità, però, può portare ad apprendere ciò che è sbagliato. Per sfruttare in modo costruttivo un tale stato di grazia, è bene che gli adolescenti possano fare esperienza di situazioni positive, di esperienze di qualità per “mettere insieme tutti i pezzi”, per unire creatività e apprendimento in modo organizzato.

 

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Si dice che le adozioni  siano l’incontro di due mancanze: quella di un bambino senza genitori, e di una coppia che non può avere figli.

Il desiderio di adottare, infatti, nasce per lo più da una limitazione biologica, la sterilità, che spinge la coppia a ricercare modi alternativi per soddisfare il proprio bisogno di avere bambini.

L’istituto giuridico per le adozioni, tuttavia, risponde fondamentalmente al bisogno del minore di vivere in una famiglia che lo accolga e lo ami e non a quello dei genitori di avere un figlio.

I diritti del bambino e il percorso dei genitori nelle Adozioni

E’ infatti diritto del bambino vivere con una mamma e un papà che sappiano curarlo, proteggerlo, dargli sicurezza e affetto. Un bambino adottato, inoltre, avrà bisogno di avere accanto due genitori che sappiano proporsi come figure in grado di aiutarlo a elaborare e riparare le ferite delle quali è portatore.

I coniugi che si avvicinano alle adozioni dovranno perciò essere disposti a fare un percorso psicologico che li porterà ad approfondire le loro motivazioni, i loro desideri, e le zone d’ombra della loro vita. Solo attraverso questa strada, infatti, saranno pronti ad accogliere e dare risposta ai bisogni di un bambino portatore di una storia dolorosa e spesso traumatica.

Se non saranno stati in grado di risolvere le problematiche legate alla loro vita e alla loro storia, e a dare un senso al loro dolore, difficilmente saranno in grado di aiutare un figlio a risolvere le proprie e a sostenere la sua sofferenza, di conseguenza ad affrontare al meglio le adozioni.

adozioni

 

La sterilità

La sterilità rappresenta sempre un evento traumatico che mette in crisi e limita i propri progetti di vita. La scoperta di non poter avere figli destabilizza e costringe a dare un senso a ciò che è accaduto, a rivisitare la propria vita alla luce di una realtà imprevista e indesiderata, e costringe a rinunciare al figlio senza volto e senza nome che ciascuno ha inconsciamente conservato dentro di sé.

Per questo motivo la scoperta della sterilità si configura come un vero e proprio lutto, e come tale va affrontato.

L’elaborazione del lutto della sterilità è una fase indispensabile e imprescindibile nel percorso adottivo. Essa non viene affrontata ed elaborata una volta per tutte, ma si risolve poco per volta, in un percorso che può durare anni e proseguire anche dopo l’arrivo del figlio nella propria famiglia.

Saper gestire le emozioni e i sentimenti connessi a questo lutto, tuttavia, diventa un requisito indispensabile per poter dare risposta ai bisogni affettivi ed emotivi di un bambino che viene in casa con un bagaglio, spesso pesante, di traumi, dolori e privazioni.

La coppia

La qualità della relazione di coppia costituisce un fattore fondamentale per una prognosi positiva nella relazione adottiva. Una coppia solida, abituata al dialogo e al confronto, capace di sostenersi, saprà fornire sufficiente stabilità ad un bambino che ha bisogno di costanza, sicurezza e molto amore.

L’adozione non è un modo per riempire vuoti che ci sono all’interno delle coppie, l’adozione non è obbligo, non è qualcosa che si fa senza sentirlo al cento per cento, l’adozione è un vero e pieno gesto d’amore, è un modo per generare una famiglia, dandola a qualcuno che magari fino a quel momento l’ha solo sognata; adottare un bambino è per la coppia mettere in atto un progetto d’amore che apre i coniugi ad una dimensione relazionale non solo duale, ma di comunione, di vera e profonda socialità.

Per una coppia che vuole adottare un bambino, lavorare sulla relazione per renderla sempre più autentica e profonda sarà tempo ben utilizzato, durante tutta la fase dell’attesa e dopo l’arrivo del figlio.

Le aspettative

Può capitare che esistano, da parte dei futuri genitori adottivi, aspettative eccessive riguardo il figlio. La coppia immagina un bambino consapevole del suo bisogno di ricevere cure e affetto, o relativamente facile da gestire. Anche quando mette in conto la comparsa di problematiche nella relazione con il figlio adottivo, ritiene di riuscire a superare le difficoltà in modi relativamente semplici.

Il bambino adottato invece arriva in famiglia con un vissuto di perdita che ha creato delle ferite emotive e mentali importanti.

E’ necessario che i genitori sappiano integrare le componenti emotive legate alla delusione e alla mancata soddisfazione delle fantasie e dei desideri, che sono legate, per lo più:

  1. alla fantasia che il genitore fa su di sé come educatore capace di risolvere magicamente le difficoltà della relazione educativa con il proprio figlio;
  2. all’immaginario che ciascun genitore si è formato rispetto alla personalità del bambino.

Il rischio è quello di sviluppare meccanismi di difesa legati all’evitamento del dolore e della delusione. Se i genitori riescono a integrare queste componenti nella loro vita possono aiutare il figlio a fare altrettanto. Anche lui infatti arriva in famiglia con una serie di fantasie conseguenti ai vissuti precedenti all’adozione e ad aspettative che potrebbero causargli frustrazione e ulteriore sofferenza.

Gli operatori dei Servizi Sociali, gli Psicologi, le Associazioni di genitori adottivi e le Associazioni adozioni, gli avvocati e i docenti della scuola dell’infanzia e primaria rivestono, nella realtà dell’adozione, una importante risorsa per le famiglie e per i bambini; è importante che essi possano infatti incentivare lo sviluppo da parte dei genitori e del figlio adottivo di quei fattori di protezione che vanno a favorire una buona riuscita del percorso adottivo e l’integrazione del bambino nella nuova famiglia.

adottare un bambino

Quali sono le caratteristiche del bambino adottivo?

Il bambino adottato, inserendosi nella famiglia adottiva, porta con sé un bagaglio di esperienze che l’hanno formato e ne condizioneranno lo sviluppo futuro.

Egli, infatti, ha vissuto uno dei traumi più importanti che un bambino possa sperimentare: la perdita delle figure primarie di accudimento, che avrebbero dovuto costituire per lui, per diritto biologico, garanzia di sicurezza e protezione.

Questa perdita può essere stata primaria (il bambino è stato abbandonato alla nascita e non ha avuto la possibilità di sviluppare una relazione di attaccamento con la figura materna) o secondaria (il bambino ha vissuto per un certo periodo con la mamma e ne è stato allontanato in seguito).

Ogni situazione è diversa dall’altra e le conseguenze di tali avvenimenti saranno più o meno gravi a seconda che il bambino abbia avuto o no la possibilità di instaurare un legame di attaccamento e di fiducia con la figura materna (o con altre figure primarie di accudimento).

Istituto

Egli inoltre può aver vissuto per un certo periodo in un istituto, ha perciò sperimentato relazioni basate sulla legge del più forte, che hanno sviluppato in lui la capacità di difendersi spesso con strumenti che risultano sproporzionati o inadatti in una diversa situazione sociale.

Il maltrattamento

Il bambino può essere stato sottoposto, da parte dei genitori, a un comportamento violento, gravemente trascurante, maltrattante e a volte abusante. Al bambino adottato il più delle volte, sono mancati gli abbracci, le cure, le coccole, il nutrimento, la pulizia: insomma gli è mancata la sicurezza di avere qualcuno che si prendeva cura di lui e ha dovuto, a un certo punto, contare solo su se stesso.

Si trova perciò solo e indifeso, in balia delle emozioni e dei vissuti difficili che porta con sé, senza aver acquisito una sufficiente fiducia in qualcuno, che gli permetta di sentirsi accolto e rassicurato.

C’è da notare che qualunque forma d’incuria o di trascuratezza, può per il bambino essere percepita come un evento minaccioso che può avere conseguenze per la sua sopravvivenza e si può configurare come una violenza e un trauma.

Questo potrà strutturarsi nella sua personalità con le caratteristiche di un disturbo post traumatico da stress, i cui sintomi possono essere vari e comprendono incubi, angoscia, giochi che riproducono gli avvenimenti traumatici, chiusura in se stessi, perdita delle capacità acquisite fino a quel momento.

Trascuratezza e maltrattamento si delineano perciò, nella vita di un bambino, come importanti fattori traumatici, con i quali i genitori adottivi dovranno fare i conti e che dovranno saper accogliere per dare una risposta efficace che permetta una evoluzione positiva e serena della personalità del minore.

L’adozione come trauma

La stessa adozione, anche se ciò può sembrare incomprensibile, può essere vissuta dal bambino come un ulteriore sconvolgimento nella vita del minore.

Egli attraverso l’adozione, infatti, perde definitivamente tutto ciò che, nel bene o nel male, costituisce la sua vita ed entra in una realtà sconosciuta, con persone sconosciute che devono diventare i suoi genitori.

Una volta arrivato in famiglia, il bambino vive la sensazione che tutto ciò che ha vissuto e che era prima, sia stato cancellato come da un colpo di spugna: odori, suoni, colori, riferimenti, ambiente di vita, amici, parenti, e, nel caso di adozioni internazionali, anche la lingua … gli rimangono il suo corpo e il suo nome.

E la memoria, che spesso contiene ricordi di avvenimenti che preferirebbe dimenticare.

Durante il primo periodo in famiglia, il bambino potrebbe vivere sentimenti di paura e di confusione, sentirsi disorientato e manifestare comportamenti di rifiuto o d’iperadattamento.

 Cosa possono fare i genitori

I genitori, per permettere al bambino di superare in modo favorevole queste esperienze dolorose, sono chiamati a potenziare le loro capacità di ascolto e saper accogliere tali vissuti nei confronti dei quali dovranno proporre efficaci strumenti riparativi.

Per mettere in atto tali comportamenti i genitori dovranno:

  • Essere per il figlio un aiuto e un sostegno nell’elaborazione del suo vissuto abbandonico, che andrà affrontato volta per volta con profondità diverse in base allo sviluppo e all’età del figlio.
  • Essere in grado di sostenere e tutelare il figlio e se stessi dai vissuti dolorosi che sia genitori che il bambino possiedono.
  • Saper infondere nel figlio sicurezza e fiducia in se stesso e nelle sue capacità. Saper creare un ambiente psicologico e relazionale accogliente e rassicurante nel quale il figlio possa nel tempo riuscire a ricostruire se stesso.
  • Accogliere e accettare il bambino per quello che realmente egli è, con il suo vissuto e con le sue caratteristiche di personalità. Fare spazio al bambino reale, abbandonando poco per volta il bambino immaginario e desiderato che ciascuno porta dentro di sé.
  • Sapersi sintonizzare sugli stati d’animo del figlio e aiutarlo a “riflettere” su se stesso e sulle proprie emozioni.

Se il bambino avrà la certezza che i suoi vissuti sono stati sufficientemente compresi e accolti dalle figure genitoriali, la relazione con loro avrà le caratteristiche della stabilità e le stesse crisi potranno diventare occasione di crescita e condurre a nuovi e più stabili equilibri.

adozioni internazionali

Adolescenza e adozioni

Un ragazzo adottato si trova a dover fronteggiare, durante il periodo dell’adolescenza, avvenimenti come l’abbandono e l’adozione, e su questi si sofferma per cercare di rielaborarli e integrarli nel nuovo sè che si sta costituendo.

Maggiore insicurezza

A questa età i ragazzi sentono la necessità di avere un certo controllo sulla loro vita, di sapere che attraverso i loro comportamenti e le loro scelte possono aver successo e riuscire nei loro obiettivi.

Acquisire questa sicurezza tuttavia per un ragazzo adottato non è facile: tutta la sua vita è stata determinata da scelte che altri hanno fatto per lui e sulle quali lui non ha avuto nessuna voce in capitolo, dall’abbandono da parte dei genitori biologici, alla scelta dell’adozione fino ad arrivare alla famiglia che li ha accolti.

Questa insicurezza può essere anche mascherata da un atteggiamento eccessivamente spavaldo, che spesso sconcerta e dietro al quale è talvolta difficile intravedere la fragilità e il bisogno di certezze.

Rielaborazione dei vissuti abbandonici

I ragazzi che sono stati adottati già grandini hanno facilmente sperimentato maltrattamenti, abusi, e hanno una maggiore diffidenza nei confronti del mondo adulto. Durante l’adolescenza i vissuti infantili riemergono e con essi le emozioni che li hanno accompagnati.

Anche chi è stato adottato da piccolo, tuttavia, deve confrontarsi con le problematiche adottive. Durante l’infanzia il bambino ha una concezione limitata del significato dell’adozione, perché gli mancano ancora le categorie mentali per inserire questo fatto in una cornice di senso compiuto.

Indipendentemente dal tipo e dall’accuratezza delle informazioni che gli sono state fornite quando era bambino, egli si trova durante l’adolescenza a dover rielaborare gli avvenimenti che gli sono accaduti per comprenderli con una lucidità e una consapevolezza che da bambino non possedeva.

Il bambino tende ad accettare ciò che gli viene detto dal genitore, formandosi uno schema mentale che ha le sue basi su ciò che egli gli dice. Può credere a Babbo Natale e alle slitte, anche se non ha mai visto una renna che vola, o alla religione che gli viene proposta perché glielo dicono mamma e papà, e così è per tutto ciò che compone la sua vita.

E’ solo quando cresce che inizia a pensare e a farsi delle idee personali sul mondo, sui valori che lo reggono e ciò che costituisce la sua vita. Inizia a mettere in dubbio tutto, dalla religione al modo di relazionarsi dei suoi genitori, perché deve costruire un modo di pensare al mondo personale e a rendersi autonomo dai genitori.

La famiglia

Nei confronti della famiglia i ragazzi adottati durante l’adolescenza vivono una forma di ambivalenza: da un lato vogliono e devono separarsi e affrancarsi dai genitori, da un altro sono ancora molto dipendenti dal clima e dalla relazione che hanno con loro.
Per un ragazzo che è stato abbandonato in fasi precoci della sua vita e ha vissuto in un ambiente dove la relazione con gli adulti era frammentaria e instabile, la costruzione di una personalità e di un sé solido è più difficile e porta con sè fasi di sofferenza profonda.
Verrà facilmente proiettato sui genitori il vissuto frammentario e inadeguato che loro hanno di se stessi, per esempio facilmente vissuti di rabbia che si fa fatica ad accettare in sè stessi vengono proiettati in loro, che vengono considerati colpevoli di una scarsa stima nei suoi confronti o vengono accusati di avere verso il ragazzo comportamenti eccessivamente aggressivi.

Può capitare anche che durante l’adolescenza i ragazzi, per potersi allontanare dai genitori, ricorrano ad atteggiamenti ribelli e oppositivi che sconcertano e diventano difficili da accettare e da gestire.
Egli vive inoltre con un senso di colpa nei confronti dei genitori la necessità di autonomia e di differenziazione.
Facilmente proietterà sulla famiglia adottiva problematiche non risolte, vissute nei confronti della famiglia biologica, e nello stesso tempo potrà sentirsi in colpa per questo tipo di pensieri nei confronti dei genitori, dai quali si è sentito accolto e amato.

Come tutti i ragazzi, l’adolescente adottato vive la contraddizione tra il bisogno di allontanarsi per cercare la propria identità in altri punti di riferimento esterni alla famiglia, e può vivere più degli altri la paura di offendere e deludere i genitori adottivi, perdendo i punti di riferimento e la relazione costruita spesso faticosamente in tanti anni di convivenza.

Nella relazione con i coetanei, il ragazzo adottato può essere molto più sensibile dei ragazzi della sua età, anche quando sono ben inseriti nel gruppo. Rifiuti, critiche possono metterlo in crisi, tende ad avere amici intimi con cui il rapporto è molto stretto perché ciò lo rassicura, può avere atteggiamenti seduttivi e cercare con i suoi comportamenti di attirare continuamente l’attenzione.

Atteggiamenti polemici con i professori o in casa, o scelte che preoccupano e sconcertano, possono essere lette anche come tentativi in tal senso. Inoltre il ragazzo adottato è spesso quello che si allontana da una relazione appena c’è un problema, per evitare di sentirsi rifiutato un’altra volta.

Un ragazzo adottato vive dunque l’adolescenza con maggiore complessità: egli sperimenta la tematica dell’identità personale con maggiore intensità, e si confronta con la paura della separazione, che riattiva sentimenti abbandonici mai del tutto risolti.

Riemergono vecchie problematiche

Si riattivano problematiche che sembravano risolte ed emergono nuove domande nella mente del ragazzo: A chi assomiglio? I miei fratelli biologici dove saranno? Parti del corpo e tratti di carattere vengono studiati e ingigantiti, e le domande sembrano senza fine e irrisolvibili: molte informazioni si sono perse, gli stessi genitori biologici non hanno risposte valide e definitive a queste domande.

Per gli adolescenti adottati da piccoli, quando non c’era ancora un’elaborazione mentale e una comprensione chiara della situazione, sono frequenti problematiche relative al proprio corpo, che viene vissuto come sproporzionato e inadeguato.

Quale risposta?

E’ necessario in questa fase che i genitori considerino la diversità della situazione e sappiano accettare che il figlio viva le problematiche legate alla sua età con vissuti specifici diversi da quelli dei suoi coetanei. E’ importante che i genitori non si sentano minacciati dal vissuto del figlio e dalle sue inquietudini, ma si mantengano sereni nella consapevolezza di una relazione conquistata e acquisita, anche se in continua evoluzione e crescita.

Questo atteggiamento permetterà al figlio di vivere ed esprimere i suoi vissuti senza doverli nascondere dietro comportamenti devianti o eccessivamente oppositivi. Appare indispensabile in questa fase curare la relazione col figlio senza irrigidirsi nelle proprie posizioni, mantenendo tuttavia saldi i principi e la trasmissione di valori, che andranno proposti al ragazzo (o alla ragazza) con fermezza e serenità, e aiutarlo a prendere la responsabilità di se stesso e delle proprie azioni.Cercasi famiglia adottiva

Quando chiedere aiuto

Generalmente i genitori adottivi non hanno difficoltà a chiedere aiuto in caso di bisogno. I vari colloqui per ottenere l’idoneità hanno abituato alla frequentazione degli psicologi, quindi non ci sono timori o remore ad incontrare i vari specialisti.

Ma quando si avverte che le cose non funzionano come dovrebbero, quando i comportamenti, le parole, le emozioni…denotano che c’è qualcosa che non va, innanzitutto si deve fare chiarezza sul problema, cioè capire  che tipo di difficoltà abbiamo di fronte.

I rischi, infatti, che si possono correre nella valutazione  sono sostanzialmente di due tipi: si sottovaluta il disagio che si sta vivendo e si lascia passare del tempo prezioso oppure “si leggono con gli occhiali dell’adozione” problemi di diversa natura che con l’adozione magari non c’entrano nulla.

 Quando ci si accorge che le cose non funzionano, si sente che non si recupera la serenità, si avverte che la fatica è per tutti eccessiva, allora vale la pena domandarsi se c’è bisogno di aiuto.  E’ necessario riconoscere il bisogno di essere sostenuti prima che insorgano problemi gravi.

Il bisogno di farcela da soli nel più genuino intento di sentirsi “come le altre famiglie”, spesso portano a condizioni di solitudine e fai-da-te che non giovano, anzi complicano le cose. Nessuno è colpevole della situazione, ma si è responsabili tutti insieme. Prima si corre ai ripari, più possibilità ci sono di recuperare le cose che non vanno. Ci si può rivolgere ai professionisti incontrati nel percorso adottivo, oppure a psicologi di fiducia. La terapia consigliata è quella familiare.

La famiglia adottiva in terapia familiare

Il bambino è incapace di dare senso e significato alle vicende che gli sono accadute nella vita. L’impossibilità di esprimere in maniera efficace il dolore che porta dentro di sé, dolore che perciò ha la caratteristica di essere intraducibile, come abbiamo visto lo può portare a sviluppare comportamenti inadeguati rispetto alla realtà esterna, ma per lui necessari (crisi di rabbia, depressioni, rifiuti).

Gli sfuggono i motivi che potrebbero aiutarlo a dare un senso a ciò che gli è accaduto. Egli inoltre non possiede una competenza linguistica e cognitiva, adatte a capire ed esprimere con pensieri e parole adeguate i suoi sentimenti. Il più delle volte penserà di essere responsabile di ciò che gli è accaduto. Penserà di essere cattivo e meritevole dell’abbandono e degli avvenimenti che gli sono capitati.

Quando il figlio adottivo attraversa la delicata fase dell’adolescenza con il suo carico di insicurezze e il bisogno di definire la sua identità, emergono altre dinamiche come quelle descritte in precedenza, che comportano altre problematiche da affrontare.

Se i genitori saranno stati in grado di elaborare in maniera adeguata il lutto della sterilità, inserendo quest’avvenimento doloroso in una cornice di senso, sapranno accogliere il vissuto del figlio e dare risposta al suo bisogno di capire il cosa e il perché gli sono accaduti determinati avvenimenti. E’ fondamentalmente di questo, infatti, che il bambino, ha bisogno.

Quando invece tra i genitori adottivi e il figlio adottato non si stabilisce un solido legame di attaccamento un’alta percentuale di figli adottivi manifesta aggressività verso i nuovi genitori, difficoltà a scuola e a volte comportamenti distruttivi e antisociali che mettono a dura prova la costruzione di un legame di fiducia.

Molte famiglie adottive giungono alla terapia familiare come a un’ultima spiaggia, in cerca di un lieto fine che sembra sfuggir loro di mano un passo alla volta. Molti di questi genitori e figli si somigliano vagamente tra loro: una mamma arrabbiata e delusa, che trasuda un senso di intima solitudine; un/una figlio/a che ostenta menefreghismo anche a fronte di situazioni oggettivamente delicate; un padre in disparte, spettatore più o meno interessato di un piccolo dramma familiare che pare riguardarlo fino a un certo punto.  

Il percorso di  terapia con la famiglia adottiva nel suo insieme può essere un fondamentale aiuto per uscire dall’empasse e superare le difficoltà e i conflitti che la famiglia si trova ad affrontare quotidianamente, perché permette a genitori e figli di esprimere pensieri e sentimenti, dubbi ed emozioni.

Ogni incontro rappresenta un’istantanea che illumina e mette a fuoco le relazioni nel momento del loro nascere, favorendo in chi le vive un atteggiamento consapevole nei confronti delle problematiche via via incontrate. 

Se hai bisogno di un consulto posso aiutarti, contattami attraverso il bottone.

L’elaborazione del lutto è uno dei momenti più complicati della nostra vita. La perdita di una persona cara, la sua assenza ed il vuoto che ci lascia, producono in noi sensazioni di tristezza e disperazione che sono difficili da superare.

Il lutto è sempre doloroso, non soltanto per l’inevitabile dispiacere di non poter più avere al fianco un affetto importante, ma anche perché impone a chi resta di ridefinire la propria esistenza e trovare un nuovo equilibrio in un sistema di riferimento affettivo e “pratico” sensibilmente modificato.

elaborazione del lutto

elaborazione del lutto

Spesso il dolore è travolgente e può far sperimentare tutta la gamma delle emozioni negative: dallo shock all’incredulità, al senso di colpa, alla rabbia e alla più profonda tristezza, può inoltre intaccare la tua salute fisica, causando problemi di sonno, alimentari o un senso di stanchezza cronica.

Elaborazione del lutto: cosa è precisamente?

Il termine “lutto” fa riferimento al periodo di tempo dopo la perdita di una persona cara e a tutti i sentimenti di dolore collegati.

Esistono diversi modi di affrontarlo, ed è un’esperienza altamente individuale: non esiste un modo giusto o sbagliato per vivere un lutto, lo si vive quindi in base al nostro vissuto, a quello che siamo, alle nostre esperienze ed al tipo di rapporto che si aveva con la persona mancata.

Quello che è giusto sapere è che prima di tutto questo processo ha bisogno di tempo, non lo si può velocizzare e non esiste un periodo giusto a prescindere.

Qualunque sia la sua esperienza, in questo momento è importante essere paziente con se stesso e non giudicarsi o attaccarsi per quello che si sta provando. Insomma non vergognarsi dei proprio sentimenti, ma anzi assecondarli.

Per superare un lutto, occorre sfatare una serie di falsi miti che non ci portano a nulla se non a complicare tutto il processo. Per elaborare un lutto non si può tenere conto di una serie di frasi fatte pronunciate da chi intorno a noi, in buona fede, cerca di risollevare il nostro animo.

E’ bene quindi non ascoltare coloro che vi dicono

….il dolore andrà via velocemente se lo ignori…

E’ sbagliato, perché cercare di ignorare il dolore può renderlo più grande. Affinché ci sia una guarigione reale è necessario affrontare il dolore attivamente, andare incontro ad esso, viverlo, farci avvolgere ci porterà ad un momento di grande sofferenza, ma dopo ci guarirà.

.…è importante “essere forti” di fronte alla perdita…

Sentirsi tristi, spaventati o soli è una reazione normale, non preoccupatevi. Piangere è giusto, non si ha bisogno di mostrarsi forte a tutti costi. Condividere i veri vostri sentimenti può aiutare sia voi che le persone che vi stanno accanto a superare.

….se non riesci a piangere ciò significa che non ti dispiace abbastanza…

Altra grande sciocchezza! Il pianto è una reazione normale alla tristezza, ma non è l’unica. Coloro che non piangono possono comunque sentire il dolore allo stesso livello di intensità, ma avere altri modi per esprimerlo

….andare avanti con la tua vita significa dimenticare la tua perdita…

Andare avanti, invece significa accettare la perdita, ma non dimenticarla. Potete andare avanti e mantenere il ricordo di qualcuno che avete perso come una parte importante di voi. Anzi, più andate avanti più questi ricordi possono diventare parte integrante della definizione di chi siete e di chi diventerete.

Come superare un lutto : Le Fasi 

Elisabeth Kübler Ross è stata una psichiatra svizzera, e viene considerata la fondatrice della psicotanatologia; la sua teoria ha il pregio di spiegare la mutevolezza delle esperienze emotive proprie del lutto.

In questa Teoria di Kübler-Ross  ella ha rappresentato l’elaborazione del lutto attraverso 5 fasi. E’ un modello a fasi, e non a stadi, cioè il superamento di una non esclude che si possa ripresentare. Le fasi possono infatti alternarsi e ripresentarsi più volte, con varia intensità e senza un ordine preciso: le emozioni non seguono regole ma, come si manifestano, così svaniscono, magari miste e sovrapposte.  Queste fasi indicano delle risposte alle emozioni che si provano. Possono durare minuti oppure giorni e passare da una all’altra: non sono lineari.

Ricorda però:

L’elaborazione di una perdita non è un cammino prevedibile. Il dolore può essere intenso, disordinato e confuso. Non c’è da preoccuparsi se le vostre reazioni non rientrano in queste fasi.

Le fasi del lutto quindi secondo la Kübler Ross sono queste:

  1. Negazione: ci aiuta a sopravvivere alla perdita. In questa fase il mondo perde di senso e diventa insostenibile. La vita non sembra avere più senso. Diventiamo insensibili. Ci chiediamo come possiamo andare avanti, se possiamo andare avanti, perché dovremmo andare avanti.
  2. Rabbia: è una fase necessaria del processo di guarigione. Di solito sappiamo più come sopprimere la rabbia che come sentirla. Se siamo disposti a provarla, però, possiamo accedere ad un livello più profondo di consapevolezza. La rabbia è un’altra indicazione dell’intensità dei sentimenti e dell’amore per la persona che non c’è più. Maggiormente ci si permette di provarla più comincerà a dissiparsi. Sotto la rabbia c’è il dolore, il vostro dolore.
  3. Negoziazione: vorremmo che la vita ritorni a quella che era prima e faremmo di tutto per riavere quella persona indietro. Pensiamo a quanto avremmo potuto fare per evitare questa perdita: diagnosticare la malattia prima, fermare l’incidente ecc. Riempiamo le nostre giornate di “se solo avessi…” e in questa fase proviamo un forte senso di colpa.
  4. Depressione: i sentimenti di vuoto si presentano e il dolore entra nelle nostre vite a un livello più profondo di quanto avessimo mai immaginato. Questo stadio depressivo sembra durare per sempre, ma non è assolutamente un segno di malattia mentale. Al contrario, è una reazione appropriata ad una perdita così grande. E va vissuta appieno per arrivare alla guarigione.
  5. Accettazione: Questa fase è il momento in cui si arriva ad accettare la realtà: la persona amata è scomparsa fisicamente e non tornerà più. La maggior parte delle persone non si sente mai bene riguardo alla perdita di una persona cara, ma si impara a vivere con questa consapevolezza, il passato non ha lo stesso insopportabile peso di prima e il futuro ha ripreso colore.

Quando sembra impossibile superare un lutto

Il lutto risolto è frutto di un viaggio, spesso accidentato, attraverso le varie fasi che lo compongono.

Altre volte, però, il dolore si complica quando oltrepassa barriere temporali, e si resta in una spirale di dolore che cresce dentro di noi impedendoci di respirare e di vivere. 

Si tratta del lutto complicato o patologico: quando passano gli anni e la sofferenza è inamovibile, quando il dolore non perde la sua intensità e non è nemmeno diventato una lezione di vita, i “sintomi” normali del dolore si intensificano e si possono sviluppare disturbi depressivi, quadri clinici di ansia e un disadattamento comportamentale che impediscono il normale svolgimento della vita di una persona. I sintomi, quindi, possono causare altri problemi gravi. In questi casi, bisogna intervenire il prima possibile per non aggiungere ulteriore sofferenza a quella già esistente.

La terapia può aiutare a trovare nuovi significati a questa esperienza dolorosa, perché consente di affrontare la perdita che ci ha intrappolato nel dolore.

Conclusioni 

Ricorda quindi che non esiste un tempo “giusto” per viversi il lutto. Il processo di elaborazione dipende da molteplici fattori quali la nostra personalità, l’età, i propri valori e la rete sociale e di supporto; ogni lutto è differente e porta con sé vissuti molto profondi. Con il tempo la tristezza diminuisce e si torna pian piano alla vita quotidiana.

Se hai bisogno di conoscere di più, di parlare con un esperto che può aiutarti nel percorso di elaborazione del lutto, puoi contattarmi anche da qui. La tua Privacy è riservata.